Fra un po’ saranno esattamente dieci anni che il «Treno del Sole» ha cessato di collegare Palermo e Siracusa a Torino.
Il 12 dicembre 2011, infatti, Trenitalia cancellò i convogli notturni che univano la Sicilia al Settentrione, imponendo la fermata obbligatoria a Roma.
Addio, dunque, allo storico «Treno del Sole» che rappresentò negli anni del boom economico, per tanti meridionali, il viaggio verso le «terre dell’abbondanza», alla ricerca dell’agognato benessere, con valigie logore e scatole avvolte nella carta da pacchi. E addio anche al «Trinacria» (Palermo-Siracusa- Milano) e alla «Freccia della Laguna» (Palermo-Siracusa-Venezia), entrambi simbolo dell’Italia unita e dell’emigrazione.
Nella ballata «Lu trenu di lu suli», Ignazio Buttitta (1899-1997), poeta dialettale siciliano, descrisse efficacemente il viaggio dal Mezzogiorno al Nord: Turi Scordu, surfararu [solfataio], / abitanti a Mazzarinu [un centro della provincia di Caltanisetta] / cu lu trenu di lu suli / s’avvintura a lu distinu. / […] Lu paisi di luntanu / ora acchiana e ora scinni [ora sale e ora scende]; / e lu trenu ca vulava / senza ali e senza pinni. / Ogni tantu si firmava / pi nfurnari passaggeri: / emigranti surfarara, / figghi, patri e li muggheri.
Come funzionava il Treno del Sole
In servizio dal 19 dicembre 1954, il «Treno del Sole» partiva ogni giorno da Palermo: a Messina agganciava le carrozze provenienti da Siracusa e Catania, per poi risalire l’intera penisola, seguito da un convoglio supplementare nei periodi di straordinario afflusso di passeggeri. «Le speranze di poter andare a star meglio lassù al Nord – scriveva all’epoca Celestino Canteri (1923-1983) – eccitano tutti, animano gli umori, predisponendo ai più rosei propositi, e fanno dimenticare gli antichi dissapori fra siciliani e calabresi, fra lucani e napoletani; accomunano tutti nel miraggio ancor lontano: Torino». I «variopinti dialetti» vivacizzavano il «gran parlare concitato, infervorato, entusiastico»: «Risuonano i nomi dei rioni di Torino, alterati dalla pronuncia, di cui si è sentito parlare, e dove taluno già sa che andrà provvisoriamente ad abitare: Porta Palazzo, Lingotto, Mirafiori, Falchera; o dei dintorni della città: Lucento, Settimo Torinese, Druento, Moncalieri. Ed assumono strane fiabesche dimensioni, su tante bocche, questi nomi che sono speranza già materializzata e “vicina”».
Alle ore 9,50 dell’indomani, dopo ventitré ore e trentotto minuti, «il più lungo percorso senza trasbordi coperto in Italia da un convoglio ferroviario», il viaggio si concludeva nella stazione torinese di Porta Nuova. «Indolenziti per il lungo viaggio […] sui sedili di legno della terza classe, chiusi dentro cappotti troppo lunghi e giacche troppo piccole», gli emigranti – ricorderà Miriam Mafai, giornalista e parlamentare, molti anni più tardi – erano «immediatamente riconoscibili per la loro goffaggine, per il modo prudente di guardarsi attorno, come stupiti di tutto, del freddo, della nebbia, del fumo denso, delle strade larghe, per il modo sospettoso di tenersi stretta la valigia di cartone dentro la quale si indovinavano le maglie pesanti di lana, fatte a mano, il pane di casa e le pizze unte di grasso di maiale e colorate dal peperoncino».
Gli emigranti di Puglia, Molise e Abruzzo arrivavano in Piemonte col direttissimo da Lecce, Bari e Foggia; i sardi col traghetto da Porto Torres e il treno da Genova. Per raggiungere Settimo Torinese, da Torino, non mancavano i mezzi pubblici: oltre ai treni «accelerati» di cui si servivano quotidianamente i pendolari, c’erano gli autobus in partenza dal capolinea di via Gianfrancesco Fiochetto. Ma questa è un’altra storia.
di Silvio Bertotto